Ieri pomeriggio (domenica 16 ottobre) sono venuti a visitare il museo geo-vulcanologico della Falconiera Pietro Bertucci e l’americano oriundo usticese Tony Lauricella. Quest’ultimo è rimasto particolarmente colpito da un singolare reperto esposto in una vetrina: si tratta di un blocco di tufo delle dimensioni di circa 60 x 40 cm che su un lato reca una vistosa impronta a forma di ventaglio (vedere foto qui accanto). Dopo la visita Pietro mi ha cortesemente chiesto una spiegazione scritta di questo reperto, che volentieri fornisco attraverso Usticasape.
Per spiegare di che cosa si tratta bisogna fare un balzo indietro nel tempo di circa130.000 anni. A quel tempo, nell’estrema punta orientale di Ustica, andava formandosi l’ultimo vulcano dell’isola. Dico l’ultimo perché, nonostante qualche altra successiva e piccola attività, da allora il vulcanismo di Ustica si è assopito e oggi viene considerato ‘estinto’.
Un po’ come succede nei fuochi d’artificio che si rispettino, quest’ultima eruzione dell’sola di Ustica è stata particolarmente rumorosa e spettacolare. Peccato che a quei tempi non ci fosse nessuno ad osservarla, nemmeno nella dirimpettaia costa palermitana. Il mare entrava frequentemente in contatto con il magma, provocando un’esplosione dopo l’altra, il lancio di brandelli infuocati in aria, e la ricaduta di una grande quantità di ceneri lapilli e bombe vulcaniche. Ricadendo, tutto questo materiale ha formato il cono della Falconiera e quegli strati grigi e ocra che possiamo ammirare salendo su per le balze di questo rilievo o affacciandoci alla ringhiera alla fine della via della Mezzaluna.
Ma i lanci di materiale eruttivo più violenti si spingevano a sud fino alla Torre di Santa Maria, e a nord- ovest fino a Tramontana, seppellendo tutto ciò che si trovava nelle zone oggi occupate dal posteggio, dal frantoio e aree limitrofe.
Devo alla sensibilità e alla cortesia di Giovanni Palmisano, detto il Talebano, il dono dedicato al Museo della Falconiera del blocco di tufo di cui ho parlato all’inizio. Infatti, quasi una decina di anni fa, egli mi telefonò dicendo di avere trovato, scavando nel suo terreno, un magnifico reperto con un impronta quella che sembrava una grande conchiglia tipo pecten. Corsi subito a vedere e rimasi effettivamente colpito da questa scoperta. Ma piuttosto che di una conchiglia, l’impronta a forma di ventaglio mi sembrò appartenere a una pianta. Non essendo esperto di botanica, mi rivolsi con tanto di fotografie e calco effettuato con il Das a una collega di Roma che prontamente fece la diagnosi: impronta di Chamaerops, ossia di palma nana, in Sicilia detta anche dialettalmente ‘scopazzo’.
Dunque, l’ultimo sussulto del vulcano usticese, manifestatosi attraverso il cono della Falconiera, aveva sepolto con le sue ceneri e i suoi lapilli arroventati le povere palmette che prosperavano lá dove è oggi il frantoio, seppellendole. Ma prima di disfarsi qualcuna delle più fibrose foglie aveva potuto di lasciare la sua impronta su quelli che col tempo sarebbero diventati tufi consolidati. Uno straordinario messaggio, muto e prezioso, per noi studiosi e appassionati di Scienze della Terra, grazie al quale abbiamo potuto arricchire la meravigliosa storia dell’ultima manifestazione eruttiva della nostra isola.
Franco Foresta Martin